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Per Aspera Ad Veritatem n.24
Il controspionaggio siciliano all'opera

Romano Canosa - Isabella Colonnello



Come abbiamo detto nel primo capitolo, gli anni Sessanta videro dapprima (7 marzo 1560) la conquista di Gerba da parte degli spagnoli, la successiva ripresa dell'isola dai turchi poi (inizio del maggio successivo) e, infine, la caduta (31 luglio) del forte, costruito sull'isola dagli spagnoli.
Il 1° ottobre, dopo aver saccheggiato le coste siciliane e subito dopo quelle abruzzesi, l'ammiraglio turco Pialy pascià rientrava trionfalmente a Costantinopoli, sulla galera ammiraglia dipinta di verde, seguita da quindici galere di un rosso fiammante e da tutte le altre navi.
Seguirono anni di relativa tranquillità.
La flotta turca non uscì in forze dagli stretti né nel 1561, nei tre anni successivi, anche se continuarono le azioni di disturbo dei corsari.
La “armada” turca fece la sua ricomparsa in forze soltanto nell'estate del 1564, quando tentò di conquistare Malta. La eroica resistenza dei Cavalieri, dapprima, l'arrivo della flotta spagnola in seguito, determinarono, tuttavia, l'insuccesso dell'impresa.
Seguirono altri anni di tregua, nei quali la Spagna, con la “complicità” di un disarmo pressoché generale nel Mare Interno, poté dedicarsi a quanto stava accadendo nei suoi possedimenti nei Paesi Bassi.
Gli apparati informativi siciliani, in questo periodo, si dedicarono non soltanto alla raccolta di notizie sul nemico, ma anche alla scoperta di presunte attività clandestine di quest'ultimo nell'isola.
Nel gennaio 1560, un “avviso”, proveniente dal Levante, informava Palermo che il Turco stava approntando un esercito di terra contro il Persiano ed una flotta di 150 galere. A tal fine, nelle acque della Morea ed a Lepanto, erano arrivati dei “commissari” imperiali, con l'ordine ai sagiacchi di tenere pronte le loro “genti di guerra”.
Nello stesso torno di tempo, a Cefalonia, era arrivata da Costantinopoli una galera con la quale il Sultano aveva mandato a prendere a Tripoli Dragut, per condurlo nella capitale.
Nello stesso mese arrivava da Costantinopoli, via Venezia, un “avviso” che informava che nella capitale si trovavano 150 vele, delle quali 30 erano destinate al “mar mayor”, 20 alla guardia dell'arcipelago e 100 ad intervenire dove sarebbe stato necessario, anche se la opinione comune era che le stesse si sarebbero dirette verso le coste del Nordafrica.
Il 7 maggio successivo il Gran Maestro dell'Ordine dei Cavalieri di S. Giovanni informava le autorità siciliane che, quella mattina, al largo di Gozo, erano stati osservati più di 20 vascelli, notizia successivamente corretta dallo stesso Gran Maestro, nel senso che le navi avvistate erano state non 20, ma una sessantina. Nelle vicinanze di Gozo, inoltre, alcuni rinnegati e schiavi della flotta turca erano fuggiti, buttandosi in mare. Alle autorità maltesi, gli stessi avevano riferito che le navi erano dirette prima a Tripoli e poi a combattere le forze spagnole (presumibilmente a Gerba).
Nel settembre successivo, un gentiluomo messinese, Giuseppe Trimarchi, residente a Mitilene, aveva informato il fratello (che stava a Messina) che, a Costantinopoli, erano state messe in mare ottanta galere e che, nella primavera successiva, sarebbe uscita “grossissima armata”, secondo alcuni diretta a Malta, secondo altri invece ad Orano o in Puglia. Il Trimarchi comunicava anche che tra i turchi ed i persiani era intervenuta la pace.
Le preoccupazioni dei Cavalieri di Malta per un attacco turco alla loro isola dovevano essere ben grandi (del resto l'attacco avrebbe avuto effettivamente luogo qualche anno dopo) se, il 14 novembre 1560, il Gran Maestro dell'Ordine non esitava a scrivere a Palermo di aver deciso di inviare in Sicilia otto o diecimila abitanti delle isole maltesi, tra quelle più “inutili”, vale a dire incapaci di combattere. A tal fine egli chiedeva che le autorità siciliane gli indicassero le località della costa meridionale dell'isola, idonee ad accogliere gli “esuli”.
Le “informazioni” continuarono ad arrivare anche nell'anno seguente 1561.
Don Giovanni di Castiglia, partito da Costantinopoli il 25 marzo ed arrivato in Sicilia il 29 aprile successivo, a bordo di un galeone francese, comunicava, ad esempio, oltre ad alcuni movimenti di navi negli stretti, anche che don Alvaro de Sande (il difensore del forte di Gerba) era sempre detenuto nella torre del Mar Nero, mentre altri due spagnoli (don Sancho e don Belenguer) erano custoditi nella torre di Galata.
Al fine di rendere più celere il servizio di informazioni, Palermo, il 7 aprile, comunicava a Madrid di aver ordinato alle autorità messinesi che tutti gli “avvisi”, che arrivavano dal Levante, fossero immediatamente copiati ed inviati subito nella capitale spagnola, via Napoli.
La lettera conteneva anche un pressante invito al sovrano a fare tutto quello che era in suo potere per rendersi “poderoso in la mar”, poiché non v'era altro rimedio per difendere la cristianità dagli attacchi turchi.
Qualche giorno dopo, il viceré Medinaceli informava Madrid che Antonio Doria era giunto in salvo a Trapani, ma che a La Goletta si dava per certa la cattura del capitano Cigala, di don Luis de Osorio, di don Pedro de Urries e della moglie di quest'ultimo, avvenuta secondo le modalità descritte da coloro che erano riusciti a fuggire dalla galera di don Luis.
L'anno 1561, a causa delle ripetute sconfitte spagnole dell'anno precedente, delle scorrerie corsare sulle coste e del timore di nuove comparse della flotta turca nelle acque del Mediterraneo, fu caratterizzato da una diffusa preoccupazione per la presenza eventuale di traditori e spie turche in Sicilia e a La Goletta, pronti a consegnare città e piazzeforti agli infedeli.
Questa diffusa paura fu accresciuta da alcuni “rapporti” arrivati da Costantinopoli che ad essa dettero, non è chiaro con quanto fondamento, ulteriore incremento. Uno di questi “rapporti”, ad esempio, affermava che il re di Algeri aveva, in una isola tra le coste algerine e la Sardegna (Ustica?), dei contatti con alcuni soldati spagnoli che vi si trovavano, mori del regno di Valencia, Aragona e Granada, e che di questo aveva messo al corrente Dragut. Il rapporto aggiungeva che a La Goletta gli agenti turchi si erano impegnati non soltanto a far saltare la polveriera e ad avvelenare le cisterne, ma anche a provocare, nel corso del mese di settembre del 1559 (due anni prima, quindi), un ammutinamento! Infine, a Siracusa, un componente della famiglia Bellomo era in trattative con il Turco per consegnar loro la città! Secondo il compilatore del rapporto, una particolare attenzione avrebbe dovuto essere dedicata, sotto questo aspetto, ai rinnegati napoletani e siciliani, i quali erano “causa de muy grandes trayciones y movimientos y perdidas y males de la christiandad”!
Allo stesso torno di tempo risale un altro “rapporto” sulle cose di Turchia, con particolare riferimento agli aspetti spionistici e controspionistici.
L'autore cominciava con il dire che, affinché il re potesse essere puntualmente informato delle decisioni del Gran Turco, era necessario tenere uno o due persone a Costantinopoli, con notevoli somme a disposizione (2.000 ducati cadauno), al fine di consentire loro di “frequentare” persone di rango che avessero potuto dare loro delle notizie segrete.
Le due spie non avrebbero dovuto sapere nulla l'una dell'altra. Le notizie sarebbero state trasmesse ad altri agenti, residenti a Ragusa e a Corfù. Sarebbe stato opportuno porre una “antenna” anche a Salonicco, dove le informazioni potevano arrivare comodamente per via di terra.
Seguiva una minuziosa descrizione delle abitudini della flotta turca che, ogni anno, andava da Costantinopoli a Scio per pulire e spalmare le carene delle navi e sulle modalità di arruolamento degli equipaggi e di rifornimento delle stesse di biscotto.
Il compilatore del rapporto passava subito dopo a delineare possibili “scenari” di attacco alle basi turche alla Prevesa, a Rodi e nell'arcipelago. A tal fine, a suo parere, sarebbe stato necessario riscattare alcuni schiavi del Levante, vecchi e, pertanto, molto pratici e conoscitori esperti della navigazione turca e di tutti i porti del Mediterraneo orientale. Non andava neppure dimenticato che i rinnegati cristiani in Turchia erano turbati da alcune imposizioni, disposte recentemente nei loro confronti, e che, pertanto, sarebbe bastata la promessa di un indulto per far sì che abbandonassero il Turco e ritornassero alla fede e ai luoghi di origine.
Tra gli uomini che avrebbero potuto essere scelti come agenti spagnoli a Costantinopoli, il compilatore del rapporto indicava in primo luogo Adam de Franchis, gentiluomo scioto, intelligentissimo, conoscitore delle lingue turca, greca, francese e italiana e persona di cui ci si poteva sicuramente fidare.
Il rapporto si chiudeva con un diretto riferimento alle spie turche in Sicilia.
In questo ambito, un abitante di Siracusa aveva consegnato ad un agente turco la pianta della città, all'interno della quale operava un cittadino della famiglia Bellomo, che stava trattando la consegna della stessa al Turco. A Messina, inoltre, secondo quanto riferito da un rinnegato turco di Costantinopoli, agiva una spia turca di nome Bastiano Liparoti, napoletano, che abitava vicino alla Porta della dogana!
L'ultimo giorno del mese di aprile 1561 don Alonso de la Cueva scrisse al viceré Medinaceli, comunicandogli che il duca di Alcalà, da Napoli, gli aveva fatto presente che nella fortezza di La Goletta si trovavano alcuni artiglieri e soldati i quali, d'accordo con Dragut, erano pronti ad incendiare la polveriera, non appena fosse comparsa la flotta turca, e ad avvelenare le cisterne.
Un soldato, sottoposto a tortura, aveva confermato l'esistenza del complotto ed accusato tale Juan Pimentel di esserne stato l'ispiratore. Subito dopo aver confessato, il soldato era stato impiccato in carcere, mentre un altro soldato era stato arrestato, ma non aveva ancora confessato. Il Pimentel, invece, a quanto si era saputo, era fuggito e sembrava che si fosse diretto a Trapani.
Il 4 maggio seguente, il conte di Vicari, da Trapani, scriveva al Medinaceli di aver fatto ricerche nella città sul conto del Pimentel e di aver saputo che lo stesso era partito da alcuni giorni per Napoli, da cui aveva scritto una lettera alla suocera. Il conte ripeteva quello che già sappiamo, vale a dire che il Pimentel, attraverso una spia turca residente in Sicilia, aveva promesso di bruciare le munizioni ed avvelenare le cisterne de La Goletta e che queste cose erano state “miracolosamente” scoperte, a seguito dell'arresto e della confessione di un “bombardier”. Il Vicari comunicava anche di aver disposto il sequestro delle scritture e delle robe che si trovavano nella casa del ricercato.
Quattro giorni dopo, il viceré comunicava al sovrano le ultime notizie sul caso, si impegnava a far tutto quanto il possibile per scoprire la spia turca in Sicilia ed avanzava il sospetto che, in ogni caso, probabilmente si trattava di un “morisco” e che, in generale, bisognava stare sempre molto attenti, ogni qualvolta gente di tale razza veniva inviata in “estas partes”!
La vicenda ritornava al centro dell'attenzione nell'ottobre 1561 (l'estate era stata dominata dallo scontro alle isole Eolie tra le galere di Sicilia e quelle corsare, al comando di Dragut, scontro nel quale gli spagnoli avevano avuto la peggio, con la perdita della squadra di Sicilia e la cattura del comandante della stessa, Guimerán, del vescovo di Catania e del reggente Seminara), a seguito di una lettera, inviata a Palermo da tale Gonilla di Minorca, arrivato a Scio, dopo essere stato riscattato dai turchi.
Costui affermava di aver saputo da un dragomanno suo amico che il Turco aveva deciso di andare alla conquista de La Goletta, a seguito di una richiesta in tal senso del re di Tunisi e di Dragut, e che, a tal fine, gli assalitori contavano sull'aiuto di alcuni traditori, dei quali, tuttavia, non era riuscito a conoscere i nomi.
Il riscattato affermava anche (ed in questo colpiva nel segno) che i turchi pensavano di prendere la Goletta, utilizzando un grandissimo numero di sacchi pieni di sabbia, camminando sui quali avrebbero potuto attraversare lo stagno ed avvicinarsi alle mura della fortezza.
Sui “traditori” di Siracusa, facenti parte della famiglia Bellomo, il viceré, da Messina, informava Madrid che le indagini subito avviate avevano ristretto il ventaglio dei sospetti ad Antonio, Fortuna e Valerio Bellomo, nobili della città, i quali erano stati rinchiusi nel castello di Matagrifone. Non era stato possibile, tuttavia, trovare, al loro carico, alcun indizio che giustificasse la loro sottoposizione alla tortura, tanto più che si trattava di membri di una delle più importanti famiglie della città. Era pertanto necessario che il re decidesse lui stesso che fare degli arrestati, sembrando cosa giusta, nel caso che prove o indizi fossero rimasti inesistenti, rimetterli in libertà e non importunarli ulteriormente.
Gli interventi sul piano del controspionaggio non fecero venir meno quelli sul piano dello spionaggio vero e proprio. Le autorità siciliane, infatti, continuarono a curare la ricezione delle informazioni dal Levante ed iniziarono a perseguire l'obiettivo di ottenere, con il tradimento, la conquista di Tripoli, tentativo che, come vedremo, continuarono anche negli anni seguenti.
Il 1° maggio 1562, un rinnegato scioto, di nome Jussuf Rais, scriveva da Tripoli una lettera in Sicilia, nella quale proponeva di “dare la città alle mani del re catholico”. A tal fine sarebbe stato necessario, a suo avviso, che partissero alla volta di quel porto 40 galere.
Qualora i “captivi” (che, per loro disgrazia, erano tanti) fossero stati certi dell'arrivo degli spagnoli si sarebbero ribellati.
Il segnale per la ribellione sarebbe stato un legno dipinto di verde, messo di notte sull'isola della bocca piccola del porto, da una fregata spagnola, mentre le galere sarebbero rimaste indietro, in modo da non essere viste dalla costa.
La notte successiva, dieci galere avrebbero dovuto entrare nel porto, attraverso la bocca piccola. Un rinnegato cristiano di Candia, di nome Mami Rais, “homo di molta qualità”, al loro arrivo, avrebbe immediatamente liberato dai ferri gli schiavi cristiani che si trovavano sui vascelli turchi, ricoverati nel porto.
Gli spagnoli avrebbero attaccato le mura con le scale, passando dalla parte del bagno penale, nel quale un altro rinnegato cristiano, di nome Giafferi Siracusa, avrebbe immediatamente liberato tutti i prigionieri cristiani che vi si trovavano detenuti.
Subito dopo, gli spagnoli avrebbero dovuto recarsi al Palazzo, fare prigioniero Dragut e “stare quieti”. Nel “castillegio”, gli assalitori non avrebbero potuto incontrare difficoltà, in quanto sarebbe stato presente lui stesso, Jussuf. Nel Castello, invece, si sarebbe trovato un altro partecipe del complotto, un rinnegato di Messina, da cristiano chiamato Nicola Carbone, il quale avrebbe fatto in modo che non derivasse “travaglio” alle navi spagnole entrate nel porto.
Il tempo preferibile per l'azione era quello compreso tra il 20 agosto ed il 10 settembre successivi.
La lettera si chiudeva con un suggerimento “tecnico”(la bocca piccola del porto era la più idonea per un attacco di sorpresa, ma nella stessa non potevano entrare due galere per volta e, pertanto, per “non succedere qualche desastro”, sarebbe stato meglio che le navi entrassero per la bocca grande) e con l'invito al segreto più assoluto sull'affare, ché, secondo Jussuf, non si faceva cosa nel regno di Napoli ed in quello di Sicilia che, attraverso La Goletta, non arrivasse subito a conoscenza dei turchi.Il Medinaceli era così convinto della fattibilità della cosa che, nel luglio successivo, rilasciava a don Gerolamo Laguna, siracusano, attraverso il quale Jussuf si era messo in contatto con le autorità spagnole dell'isola, una dichiarazione di suo pugno, con la quale si impegnava a pagargli 10.000 scudi d'oro, qualora l'affare fosse andato in porto.
Anche il sovrano veniva dettagliatamente informato della proposta. Allo stesso il Medinaceli indicava anche le ragioni per le quali si era impegnato per iscritto con il Laguna (bisognava mostrare ai rinnegati che non li si ingannava, come era accaduto altre volte).
Per rendere più agevole l'operazione, le autorità spagnole richiesero (ed ottennero) un testo scritto, che conteneva “tutti li particulari... tanto del circuito delle mura, franchi, fossi et baluardi de la città di Tripoli, quanto delle forze che Dragut tiene per potersi difendere, quando fusse assaltato, come ancora delle comodità che potesse havere il nostro esercito, quando si deliberasse et si ponesse in esecutione l'impresa”.
Per quanto concerne la raccolta di informazioni nel Levante (l'altro “servizio” fondamentale dello spionaggio spagnolo in Sicilia) queste, scarse nel 1562, furono più numerose nell'anno seguente.
Il 19 aprile 1563, ad esempio, partiva da Ragusa una lettera, diretta al palermitano Jacopo Galletti, dal contenuto rassicurante.
A stare alle notizie in essa contenute, nell'arsenale di Costantinopoli non v'erano “apparecchio né preparamento“ e dal porto erano uscite soltanto una decina di galere, per andare nell'arcipelago a caccia di navi cristiane, recatesi in quelle terre a caricare grano.
Sullo stesso tono erano anche altri “avvisi” da Corfù del 1° maggio successivo, arrivati a Messina alla fine del mese (non v'era, secondo tali “avvisi”, a Costantinopoli alcuna messa in ordine generale delle galere, salvo quindici di esse destinate alla guardia dell'arcipelago).
L'anno 1563 si chiudeva, sotto il profilo spionistico, con una lettera, spedita da Zante, il 9 dicembre, ed indirizzata al re di Spagna.
Nello scritto, l'agente spagnolo nell'isola, Baldassarre Prototico, raccomandava al sovrano un suo figlio e, per rendere più credibili le sue argomentazioni, le faceva precedere da un divertente riepilogo delle attività spionistiche da lui compiute per conto della Spagna:

"Sono hormai trenta anni che per haver spie e dar aviso degli apparecchi et degli andamenti del Turco mi truovo qui servendo la Maestà Vostra per commissione dei suoi ministri del regno di Napoli come di Sicilia. Per lo qual effetto quante volte mi sia stato bisogno di ascondermi dentro i monumenti, o di privarmi de l'hornamento natural de la barba o di gir travestito da heremita, per schivare le crudeli persecutioni dei pascià; et quanti disagi, pericoli, travagli habbia sofferti et di continuo soffra a la giornata non accade che per me si racconti, possendo la Maestà Vostra haverne informatione, come credo che di ciò ne sia stata molto bene informata del vice re di Napoli et de Sicilia, onde anco ne po far giuditio da Se Stessa..."

I tentativi di impadronirsi di Tripoli con il tradimento ripresero alla fine del decennio, con la partecipazione, questa volta, dei Cavalieri di Malta.
Matteo Pozzo, veneziano, mentre era schiavo a Tripoli, aveva avviato delle trattative con Morataga, un rinnegato cristiano di Firenze (?), che era il braccio destro di Occhialì.
Morataga gli aveva detto che stava contro voglia in quella “setta mala”, che desiderava tornare alla religione cristiana e che, per mostrare le sue buone intenzioni, era disposto a consegnare agli spagnoli il castello di Tripoli.
Riscattato, il Pozzo aveva riferito la circostanza all'ambasciatore spagnolo a Genova e questi ne aveva parlato al re, il quale lo aveva “rimesso” a don Garcia di Toledo.
Quest'ultimo, che in quel momento non si trovava in Sicilia, aveva fatto dare al Pozzo cinquecento ducati, affinché tornasse a Tripoli con lo scopo ufficiale di riscattare dei cristiani prigionieri, ma con quello reale di riallacciare le trattative.
Morataga, da lui contattato, aveva mostrato di essere sempre della stessa opinione.
Le trattative, tuttavia, si erano bloccate in quanto don Garcia aveva ordinato al Pozzo che nulla fosse fatto prima del suo arrivo in Sicilia.
L'azione, secondo Morataga, avrebbe dovuto essere compiuta subito, durante l'assenza di Occhialì, che stava per partire con la maggior parte dei trecento turchi della guarnigione verso Faisan, ubicata a 20 o 25 giorni di marcia da Tripoli.
Sei giorni dopo, il duca di Terranova scriveva al re che, essendogli l'affare sembrato importante ed urgente, aveva inviato a Malta il conservatore don Pietro Velasquez, per parlarne con il Gran Maestro, persona prudente, devota alla corona di Spagna ed esperto conoscitore delle cose di Barberia e di Tripoli, dove era stato schiavo per dodici anni, senza l'aiuto del quale il “negotio” non si sarebbe potuto eseguire.
Il Velasquez era ritornato in Sicilia il 3 gennaio ed aveva riferito che il Gran Maestro aveva giudicato l'affare “riuscibile”, ma non nel tempo proposto, e ciò per alcuni ostacoli esistenti (stagione invernale, difficoltà nello sbarco delle truppe ecc.). Del colloquio il Velasquez aveva redatto un promemoria che il Terranova inviava al re, insieme con la sua lettera.
Da Madrid, il 27 successivo, arrivava l'ordine che in nessun modo era conveniente eseguire subito il progetto, perché uno sbarco in quella stagione a Tripoli avrebbe messo a repentaglio la sicurezza delle galere. Inoltre, anche se lo sbarco fosse riuscito, vi sarebbe stato sempre il rischio che facesse la sua ricomparsa la flotta turca. Infine, anche se per la conquista del castello della città, fossero stati sufficienti i venticinque uomini, indicati dal Pozzo, per difenderlo ne sarebbero stati necessari sicuramente molti di più e questi non erano attualmente disponibili in Sicilia.
Qualora le intenzioni del Morataga fossero state “serie”, si sarebbe ben potuto attendere luglio o agosto per portare a compimento l'impresa.
Il 3 aprile il viceré di Palermo scriveva nuovamente al re la lettera che segue:

"Per la lettera di V. Maestà delli 27 di genaro ho inteso quanto mi comanda nel negotio di Tripoli, et già siccome io scrissi a V. Maestà per la mia lettera delli XVI del medesimo mese, havendo io havuta la risposta del Gran Maestre, l'haveva dismesso per le cause che a la M. Vostra già scrissi. Restami hora a dirle che mi è parso tuttavia intertener Matheo Pozzo a tal che non venendo questo anno armata turchesca, siccome facilmente podria succedere et avendo V. Maestà la gente extraordinaria della Goletta e l'ordinamento di questo regno et di quello di Napoli, si altra occorrenza di maggiore importanza non l'impedisce, possa comandare se le farà servizio che si tenti questa impresa, la quale, per quanto costui dice et l'alferez Orezen conferma, si potria far senza molta difficoltà."

Alla fine di maggio, il Terranova inviava una nuova missiva al re per fargli presente che il Pozzo aveva chiesto l'autorizzazione ad andare a Tripoli per “intertener il Morataga”, ma che gli era parso opportuno attendere il parere reale prima di concedere il permesso, in quanto v'era il pericolo che l'arrivo dell'ex schiavo a Tripoli potesse portare alla scoperta del complotto.
Arrivato a Palermo il nuovo viceré, Fernando D'Avalos, marchese di Pescara, e messo subito al corrente delle trattative in corso, lo stesso scrisse al re che gli sembrava opportuno “tener viva la pratica e darle calore”, in quanto incertezze e ritardi avrebbero potuto vanificare tutto quello che si era fatto fino ad allora (Occhialì aveva, infatti, già modificato le strutture di governo della città e vi era il sospetto che queste modifiche potessero coinvolgere anche il Morataga, privandolo dei poteri dei quali lo stesso disponeva in precedenza)!
Il Pozzo venne quindi spedito a Tripoli “per haver di nuovo informatione delle cose di quel luogo, la qual cosa è stata necessaria spetialmente per la muttanza di Aluchalli”.
Alla fine dell'anno, le trattative finirono definitivamente nel nulla, anche perché, come riferito dal Pozzo, che si trovava sempre a Tripoli, Morataga era partito con Occhialì per Algeri!
Le vicende tripoline non esaurirono, neppure questa volta, le attività “informative” siciliane. A Palermo, infatti, continuarono ad arrivare “avvisi” dal Levante sulla flotta turca e sulla presenza di spie turche nel territorio del regno e nelle enclaves spagnole in Nordafrica.


(*) Tratto da "Spionaggio a Palermo" di Romano Canosa e Isabella Colonnello, Sellerio Editore, Palermo, 1991.

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